Si può essere pagati per assistenza ad un familiare che abbia subito un danno?

Avv. Stefania Trivellato • nov 29, 2022


Si può essere pagati per l’assistenza fornita ad un familiare che ha subito un danno? Si. Ma da chi? E quando possiamo chiederlo? 


Chi conosce il lavoro e la storia dello Studio legale sa che la nostra esperienza in ambito di responsabilità sanitaria ci vede impegnati sia in difese così dette in attivo (difese di pazienti e/o di familiari di pazienti che abbiano subito un danno in occasione di ricoveri e di attività sanitaria “subita”) sia in difese così dette in passivo (e cioè in difese di singoli sanitari o strutture sanitarie quali ospedali, case di cura, studi medici, policlinici, ospedali universitari ecc). Questa particolare esperienza  nel campo della responsabilità sanitaria a tutto tondo affina sempre più una certa sensibilità sia a vedere le vicende con l’approccio di saper e poter scegliere la via giusta in un quadro di richiesta di risarcimento danni sia quella di conoscere i meccanicismi della difesa, nel medesimo ambito, quando un ospedale o una struttura sanitaria, al contrario, subiscano una richiesta di risarcimento.


Venendo al caso che ci ha coinvolto, una recente Ordinanza della Corte di Cassazione ha concluso le lunghe e travagliate vicende di un giudizio tentato dalla congiunta (figlia) di una paziente e conferma le decisioni già prese dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Venezia sostenendo così la bontà delle nostre difese sin dall’inizio messe in atto; tale sentenza di rigetto della domanda della figlia di una paziente, di una nota struttura ospedaliera da noi difesa, è solida e ci ha visto vincitori.

Va evidenziato che la decisione della Terza Sezione Civile della S.C. riguarda una fattispecie singolare.  In sintesi la ricorrente era la figlia di una paziente già risarcita dal nosocomio per gli esiti da erroneo intervento che avevano contribuito a renderla (unitamente alle patologie cui soffriva) non più autonoma e non deambulante. 

Il risarcimento dei danni della paziente era comprensivo dei costi della badante ma, l’aggravamento del quadro, aveva indotto la ricorrente/figlia a chiedere il risarcimento di pretesi danni patrimoniali e non patrimoniali per l’assistenza della madre presso la di lei abitazione in quanto bisognosa di assistenza giorno e notte per “coprire” il tempo nel quale la badante non poteva prestarsi all’assistenza della danneggiata. La figlia documentava che lasciava la propria abitazione per un certo e prolungato tempo settimanale con pregiudizio della propria “libertà”; per questa ragione la ricorrente chiedeva il pagamento di € xx all’ora per 110 ore alla settimana e per 365 giorni di ciascun anno fino a quando era deceduta la madre (cosa avvenuta parecchi anni dopo). Risultava quindi che la figlia chiedesse una certo importo annuale di svariate decine di migliaia di euro a far data dal momento di aggravamento del quadro invalidante fino al decesso. Il totale richiesto era quindi di varie centinaia di migliaia di euro ; inoltre la ricorrente chiedeva il risarcimento del non quantificato danno morale per la “perdita della libertà” (oltre alla rivalutazione dal fatto, ormai ben risalente, interessi e spese legali).

Questo era il (rilevante) valore della causa che ci ha visto protagonisti. 

Le questioni a seguito delle nostre contestazioni ed eccezioni, in ordine alle tesi della controparte, avevano comportato un dibattito sulla natura ed il titolo contrattuale e/o extracontrattuale del preteso diritto al risarcimento nei confronti dell’Ente ospedaliero ritenuto responsabile dell’invalidità della madre e poi sulla trattazione della collegata questione della prescrizione (e cioè la figlia poteva ancora chiedere quel risarcimento? O il suo diritto si era prescritto?). 

A tal proposito si deve tener conto che la citazione della ricorrente veniva notificata 6 anni dopo questa “necessaria” convivenza con la madre per l’assistenza. Tale prestazione di assistenza che “è stata costretta a dare la figlia con una vita che era autonoma” rispetto alla madre, era stato affermato fosse stata necessaria perché “non si sono travate mai badanti disposte a convivere giorno e notte continuativamente …” .

La madre della ricorrente era stata risarcita per il danno dall’ospedale anche per il costo del personale di badaggio necessario all’epoca della sentenza. Quindi per comprendere meglio: nella causa per responsabilità medica instaurata dalla madre la sentenza nel riconoscere il diritto ad essere risarcita aveva previsto una quota di danno per la badante che avrebbe dovuto assisterla. Quando poi le condizioni si erano aggravate la figlia affermò di aver dovuto attendere il passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello di Venezia depositata nel 2011 che statuiva, appunto, la responsabilità per inadempienza contrattuale dell’ospedale. Per tale sentenza, sempre secondo quanto affermava la controparte, in forza del contratto atipico di spedalità si afferma il carattere protettivo nei confronti dei terzi e la ricorrente-figlia intendeva avvalersi di ciò ed affermava, quindi, la durata decennale del termine di prescrizione. L’azione attorea proponeva una domanda a titolo sia extracontrattuale che contrattuale e quindi la prescrizione nel secondo caso sarebbe appunto decennale. Per questa ragione la figlia riteneva di essere in tempo con la richiesta di risarcimento.

I Giudice del Tribunale di Venezia prima e della Corte d’Appello poi hanno respinto la domanda della figlia per la prescrizione del diritto (o dell’azione, secondo la visione sostanziale o processuale).

Ergo: si può richiedere che venga attribuito un valore economico al tempo che dedichi all'assistenza del familiare ma entro un termine ben difinito (e giuridicamente "imposto").

Senza sapere ciò il nostro diritto ad un risarcimento non verrà riconosciuto.

Cerchiamo di capire. La Suprema Corte in linea con le precedenti pronunce di Tribunale e Corte d'Appello ha disatteso il ricorso per annullamento dato che la ricorrente figlia aveva la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria anche prima del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello pubblicata nel 2012, in quanto l’accoglimento della sua richiesta non era condizionato dalla preventiva affermazione di definitività della responsabilità dell’ospedale in ordine al danno (iatrogeno, cioè il danno che ha subito il peggioramento dovuto a responsabilità medica, insomma la menomazione che ne è seguita) della mamma. In altre parole se già si era verificato l’aggravamento degli esiti che sarebbero derivati da detta invalidità della mamma, che andava assistita secondo le diverse e nuove necessità (e cioè quelle che costringevano la figlia a starle accanto) , è da quel momento che decorreva la prescrizione per chiedere i danni!

Nel respingere lo specifico motivo del ricorso della nostra controparte la Cassazione ha enunciato  un principio fondamentale secondo cui “è erroneo l’assunto che i congiunti del paziente danneggiato in ambito sanitario possano fruire del termine prescrizionale decennale correlato alla responsabilità contrattuale medica (cioè a quel contratto che lega il paziente alla struttura e che rende si la prescrizione decennale ma solo a beneficio del paziente); è pacifico infatti – prosegue la Suprema Corte – che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni invocati “jure proprio” (cioè propri) dai congiunti di un paziente danneggiato “è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente con il paziente e dall’altro i pazienti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contatto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale, (Cass. n. 21404/2021) come invece avviene specificamente nel contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione (cfr. in senso conforme, Cass. n. 14615/2020, n. 14258/2020 e n. 5590/2015, non massimata)”.


Il principio fissato nella sentenza della Cassazione che ci ha visto protagonisti è  molto importante. 

In definitiva in ambito di responsabilità sanitaria un familiare che chieda un danno non potrà farlo secondo il principio di responsabilità contrattuale (entro 10 anni dal fatto) ma secondo un quadro di responsabilità extracontrattuale (5 anni).


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